RACCONTO BREVE di PENSIERI COLTIVATI e di SENSAZIONI VISSUTE
a margine di un intervento chirurgico

di Antonio Caridi

      Ho appena consegnato l’orologio ed il cellulare a Roberta ed a Pina. Uno sguardo, un bacio, un abbraccio. Non ci diciamo nulla. Mi giro, faccio qualche passo e sento lo scatto della porta automatica che si chiude alle mie spalle. Ancora qualche pesante passo e trovo i portantini che mi aspettano… mi fanno spogliare, mi aiutano a salire su di una scomoda barella con cui, fra lunghi corridoi e per angusti ascensori, raggiungo la sala operatoria. Uomini e donne, con bandane stravaganti e verdi camici, si affollano intorno a me... Riesco a mettere a fuoco solo il quadrante di un orologio, che segna le ore otto e mi chiedo se avrò modo e occasione di raccontare queste sensazioni.

     Come in un flashback la mia mente si affolla d’immagini, odori e suoni, che già avevano resa insonne la mia notte precedente, ma che ora mi accompagnano verso l’indotto sonno operatorio. Ci sono tutti gli ingredienti del “leitmotiv” del nostro arrivo a Roma e degli accadimenti delle ore immediatamente successive.

     In prossimità dell’arrivo dell’autobus a Tiburtina, apprendiamo che non è più disponibile l’appartamento che era stato promesso a Pina solo qualche giorno prima e penso subito ai domiciliari a cui sarà costretta in un’anonima camera d’albergo, mentre io sarò in ospedale. Passa solo qualche minuto e risquilla il cellulare di Pina. Chiamano dal policlinico e c’invitano a raggiungere, al più presto, la terza clinica chirurgica dell’Umberto 1°, per il ricovero.

     Fa caldo, mi sembra di essere in piena estate, dopo sei ore scendiamo dall’autobus e prendiamo un taxi, che ci lascia, a nostra insaputa, a cinquecento metri dall’albergo. Siamo accaldati, digiuni, assetati; arranchiamo sotto il sole, per via Palestro, con due trolley ed un borsone. Uno per uno leggo tutte le insegne dei locali che si affacciano sulla strada ed i corrispondenti numeri civici, a partire dal primo; finalmente giungiamo al “107” ed entriamo. Come in un labirinto, riusciamo a trovare la hall del nostro albergo, fra una terna di strutture gemelle. Lasciati i documenti in portineria, saliamo, con un vetusto ascensore, al secondo piano ed entriamo in una cella buia (nonostante non siano neppure le quindici e fuori ci sia il sole) e disadorna. Lasciamo in camera il borsone ed il trolley di Pina e mettiamo nel mio tutto quello che, secondo le intenzioni di mia moglie, dovrà seguirmi in ospedale: spazzola per i capelli, phon, vestito elegante, giubbotto, camicie, canottiere, slip, qualche pigiama. Inavvertitamente, finisce nella mia valigia, anche una bottiglia di “moscato passito di Saracena”, destinata ad amici romani. Non essendo riuscito a trovare una notte brava per stapparla al nosocomio, ritornerà, dopo la degenza, con me in albergo.

     Sono sudato, digiuno e assetato, ma ripartiamo, immediatamente, alla volta dell’Umberto 1°.

     “L’assistente del professore, al telefono, ha detto: prima possibile!”, mi ripete Pina, ad ogni mio accenno di cedimento nella marcia forzata. E’ lei che conduce la spedizione verso l’ospedale. Lei avanti ed io, indietro di qualche metro, che trascino, a fatica, il trolley, che sento pesare una tonnellata!

     Sono le tre del pomeriggio… c’è un sole pazzesco! Cerco di guadagnare le zone con un po’ di ombra ed il mio incedere, poco solenne e maestoso, è disapprovato dalla signora Pina, che vorrebbe condurre la spedizione con piglio e rapidità. Di tanto in tanto, cerco di staccare la lingua dal palato... senza riuscirci. Come un beduino, dopo una lunga permanenza nel deserto, ho dei miraggi. Realtà e fantasia si alternano, si legano, si confondono. Vedo il policlinico che si avvicina e si allontana, lo vedo completamente illuminato ed assolato e, subito dopo, lo ritrovo all’ombra, al centro di uno splendido lago, fra chiare e fresche acque e gorgoglianti cascate. In cuor mio spero che la meta si allontani, ma il passo veloce e ritmato della condottiera vince su tutto, anche sul trolley, che fino a poche tempo prima pareva solidale con il selciato. Non ricordo più quando ho bevuto l’ultima volta!

     Entriamo in ospedale da un ingresso secondario. Brevissima sosta. Giusto il tempo per l'informazioni su come raggiungere il luogo dell’appuntamento e Pina riparte. Percorriamo un dedalo di corridoi, verande, ponticelli, atri, incontriamo studentesse festanti, pensierosi medici e spensierate infermiere, impegnate in ammiccanti conversazioni allo smartphone.

     L’ancoraggio sul terreno con il trolley non è più la mia salvezza, ora che abbiamo raggiunto l’ascensore che ci porterà al terzo piano del reparto di chirurgia. Lì mi aspetta una giovane assistente della professoressa Giacomina, che dopo un incalzante interrogatorio sulla mia anamnesi, ha deciso di raccontarmi, nei dettagli più raccapriccianti (per estorcermi il consenso informato), ogni possibile sviluppo del delicato intervento chirurgico, il mattino successivo. Unica concessione… la possibilità di sorseggiare, finalmente, l’agognata mezza minerale e la certezza di poter cenare, all’imbrunire, prima della nottata.

     Fortunatamente, l’anestesia mi libera da ogni incubo!

     Al risveglio, mi trovo di fronte un'altro orologio; cerco di ricordare l’ultima ora letta su quello della sala pre-operatoria e, con uno sforzo notevole, cerco di mettere a fuoco l’ora corrente... Sono passate circa trenta ore. Sono in terapia intensiva. Sento i bip ritmati della strumentazione che mi circonda. Quel tubo, conficcato nella trachea, mi ha lasciato un tremendo mal di gola. Fortunatamente, l’ossigeno, che ora mi giunge dalla mascherina, mi dà un po’ di sollievo.

     Roma, 22 ottobre 2017.
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