Ho appena consegnato
l’orologio ed il cellulare a Roberta ed a Pina. Uno
sguardo, un bacio, un abbraccio. Non ci diciamo nulla. Mi
giro, faccio qualche passo e sento lo scatto della porta
automatica che si chiude alle mie spalle. Ancora qualche
pesante passo e trovo i portantini che mi aspettano…
mi fanno spogliare, mi aiutano a salire su di una scomoda
barella con cui, fra lunghi corridoi e per angusti
ascensori, raggiungo la sala operatoria. Uomini e donne,
con bandane stravaganti e verdi camici, si affollano
intorno a me... Riesco a mettere a fuoco solo il quadrante
di un orologio, che segna le ore otto e mi chiedo se avrò
modo e occasione di raccontare queste sensazioni.
Come in un flashback la mia mente si affolla d’immagini,
odori e suoni, che già avevano resa insonne la mia notte
precedente, ma che ora mi accompagnano verso l’indotto
sonno operatorio. Ci sono tutti gli ingredienti del
“leitmotiv” del nostro arrivo a Roma e degli accadimenti
delle ore immediatamente successive.
In prossimità dell’arrivo dell’autobus a Tiburtina,
apprendiamo che non è più disponibile l’appartamento che
era stato promesso a Pina solo qualche giorno prima e
penso subito ai domiciliari a cui sarà costretta
in un’anonima camera d’albergo, mentre io sarò in
ospedale. Passa solo qualche minuto e risquilla il
cellulare di Pina. Chiamano dal policlinico e c’invitano a
raggiungere, al più presto, la terza clinica chirurgica
dell’Umberto 1°, per il ricovero.
Fa caldo, mi sembra di essere in piena estate, dopo sei
ore scendiamo dall’autobus e prendiamo un taxi, che ci
lascia, a nostra insaputa, a cinquecento metri
dall’albergo. Siamo accaldati, digiuni, assetati;
arranchiamo sotto il sole, per via Palestro, con due
trolley ed un borsone. Uno per uno leggo tutte le insegne
dei locali che si affacciano sulla strada ed i
corrispondenti numeri civici, a partire dal primo;
finalmente giungiamo al “107” ed entriamo. Come in un
labirinto, riusciamo a trovare la hall del nostro albergo,
fra una terna di strutture gemelle. Lasciati i documenti
in portineria, saliamo, con un vetusto ascensore, al
secondo piano ed entriamo in una cella buia
(nonostante non siano neppure le quindici e fuori ci sia
il sole) e disadorna. Lasciamo in camera il borsone ed il
trolley di Pina e mettiamo nel mio tutto quello che,
secondo le intenzioni di mia moglie, dovrà seguirmi in
ospedale: spazzola per i capelli, phon, vestito elegante,
giubbotto, camicie, canottiere, slip, qualche pigiama.
Inavvertitamente, finisce nella mia valigia, anche una
bottiglia di “moscato passito di Saracena”, destinata ad
amici romani. Non essendo riuscito a trovare una notte
brava per stapparla al nosocomio, ritornerà, dopo la
degenza, con me in albergo.
Sono sudato, digiuno e assetato, ma ripartiamo,
immediatamente, alla volta dell’Umberto 1°.
“L’assistente del professore, al telefono, ha detto: prima
possibile!”, mi ripete Pina, ad ogni mio accenno di
cedimento nella marcia forzata. E’ lei che conduce la
spedizione verso l’ospedale. Lei avanti ed io, indietro di
qualche metro, che trascino, a fatica, il trolley, che
sento pesare una tonnellata!
Sono le tre del pomeriggio… c’è un sole pazzesco! Cerco di
guadagnare le zone con un po’ di ombra ed il mio incedere,
poco solenne e maestoso, è disapprovato dalla signora
Pina, che vorrebbe condurre la spedizione con piglio e
rapidità. Di tanto in tanto, cerco di staccare la lingua
dal palato... senza riuscirci. Come un beduino, dopo una
lunga permanenza nel deserto, ho dei miraggi. Realtà e
fantasia si alternano, si legano, si confondono. Vedo il
policlinico che si avvicina e si allontana, lo vedo
completamente illuminato ed assolato e, subito dopo, lo
ritrovo all’ombra, al centro di uno splendido lago, fra
chiare e fresche acque e gorgoglianti cascate. In cuor
mio spero che la meta si allontani, ma il passo veloce e
ritmato della condottiera vince su tutto, anche
sul trolley, che fino a poche tempo prima pareva solidale
con il selciato. Non ricordo più quando ho bevuto l’ultima
volta!
Entriamo in ospedale da un ingresso secondario. Brevissima
sosta. Giusto il tempo per l'informazioni su come
raggiungere il luogo dell’appuntamento e Pina riparte.
Percorriamo un dedalo di corridoi, verande, ponticelli,
atri, incontriamo studentesse festanti, pensierosi medici
e spensierate infermiere, impegnate in ammiccanti
conversazioni allo smartphone.
L’ancoraggio sul terreno con il trolley non è più la mia
salvezza, ora che abbiamo raggiunto l’ascensore che ci
porterà al terzo piano del reparto di chirurgia. Lì mi
aspetta una giovane assistente della professoressa
Giacomina, che dopo un incalzante interrogatorio sulla mia
anamnesi, ha deciso di raccontarmi, nei dettagli più
raccapriccianti (per estorcermi il consenso informato),
ogni possibile sviluppo del delicato intervento
chirurgico, il mattino successivo. Unica concessione… la
possibilità di sorseggiare, finalmente, l’agognata mezza
minerale e la certezza di poter cenare, all’imbrunire, prima
della nottata.
Fortunatamente, l’anestesia mi libera da ogni incubo!
Al risveglio, mi trovo di fronte un'altro orologio; cerco
di ricordare l’ultima ora letta su quello della sala
pre-operatoria e, con uno sforzo notevole, cerco di
mettere a fuoco l’ora corrente... Sono passate circa
trenta ore. Sono in terapia intensiva. Sento i bip
ritmati della strumentazione che mi circonda. Quel tubo,
conficcato nella trachea, mi ha lasciato un tremendo mal
di gola. Fortunatamente, l’ossigeno, che ora mi giunge
dalla mascherina, mi dà un po’ di sollievo.