Questa storia inizia un bel po' di anni fa. Albania, 8 settembre 1943. Proviamo a semplificare un po’: l’Italia ha appena firmato l’armistizio, la guerra continua ma noi italiani cambiano schieramento. Tanti (non cari) saluti ad Hitler ed alla Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Russia, da acerrimi nemici da combattere si trasformano in alleati. Basta un annuncio alla radio, erano in pochissimi a saperlo prima. La notizia prende naturalmente di sorpresa tutti quanti, il maresciallo Badoglio da l’annuncio ed in tutto il paese sentimenti contrastanti invadono le coscienze. La guerra da lì a due anni finirà, con tutte le conseguenze che conosciamo ma, forse, abbiamo dimenticato troppo in fretta. Torniamo all’Albania, a Durazzo con precisione. Nella stessa caserma italiani e tedeschi, come è normale, pranzano insieme aspettando le istruzioni per il pattugliamento pomeridiano. La radio italiana lì non si sente, c’è fermento però, anche se non se ne capisce subito il motivo. All’improvviso le truppe tedesche fanno irruzione nella tenda degli italiani, fucili spianati ed urla minacciose. |
Gli stessi soldati che poche ore prima erano da considerare “amici” (per quanto in guerra questo termine possa valere), adesso stanno mettendo tutti faccia a terra con la baionetta carica e pronta a colpire.
Tra quelle facce stranite e perplesse c’è anche quella di
un sergente della Marina Militare Italiana. Sono tanti
anni ormai che serve il suo Paese, ne ha viste tante,
prima cinque anni di servizio militare obbligatorio,
imbarcato inizialmente sulla nave scuola Cristoforo
Colombo e poi sulla Amerigo Vespucci, il breve ritorno a
casa e l’immediata chiamata alle armi all’indomani del 10
Giugno 1940.
È stato in Africa a
combattere gli inglesi, ad Atene per “rompere le reni alla
Grecia”, in Albania per annetterla al Regno d’Italia e ora
si trova in una caserma di Durazzo a fare come sempre il
suo lavoro, senza lamentarsi.
Succede tutto all’improvviso, gli italiani vengono passati
alle armi, si chiede loro, ad uno ad uno: “tu Mussolini o
Badoglio”. La risposta non conta, non ha senso, i soldati
di Hitler hanno già deciso cosa fare, con ognuno di loro.
Il sergente preferisce non
parlare, consapevole che qualsiasi cosa dica non possa
cambiare il suo destino.
In cambio del silenzio
riceve una baionettata sul fondo schiena ed un biglietto
di sola andata verso la Germania. Il viaggio dura svariati
giorni, costipati in un carro bestiame nel quale anche gli
animali si sarebbero rifiutati di salire, costretti a bere
staccando le placche di ghiaccio che si formavano sul
vagone.
Poi l’arrivo a Zwickau, campo di
lavoro nazista nei pressi di Dresda. Lì inizia la
prigionia, il sergente, insieme a tantissimi altri
italiani, è costretto a turni di lavoro massacranti,
almeno 16 ore al giorno senza fermarsi, ci sono da
costruire i carri armati del Reich.
Sotto la neve, con una fettina di pane ogni due giorni,
una patata bollita e tutto quello che si riusciva a
trovare. Giorni tutti uguali scanditi dalla sofferenza,
dalla fatica, dalla paura di non tornare più a casa ad
abbracciare i propri cari, dalla sua amata Lucia che ha
lasciato a Diamante con la promessa di riabbracciarsi e
alla quale, ogni volta che può, scrive lettere d’amore.
Il sergente lavora duramente, non ha alternativa per
salvare la propria vita, prova ad aiutare chi è in
difficoltà, qualcuno si confida con lui, vuole scappare,
gli scrive una lettera, ci proverà quella notte stessa.
Nella lettera c’è scritto
che gli lascia i suoi zoccoli, evidentemente valevano
tantissimo all’interno del campo, in quella tragedia.
Passa il tempo ed il
sergente viene trasferito. Burgkirchen. Cambia il posto ma
non cambia, purtroppo, la sostanza.
Aumentano le ore di lavoro
e diminuisce, se possibile, anche il cibo. La Germania è
in difficoltà, americani e russi avanzano inesorabilmente,
bisogna produrre di più e consumare di meno, e gli schiavi
sono una delle pochissime risorse sulle quali può contare
Hitler.
La fine del Reich di avvicina sempre di più ed i nazisti
provano a cancellare tutte le prove dei loro misfatti.
Spariscono documenti scottanti e persone, milioni di
persone, la soluzione finale.
Anche nel campo del sergente iniziano le esecuzioni
sommarie, i russi sono ormai alle porte. Finalmente, nel
Giugno del 1945 entrano nel campo, i tedeschi sono già
fuggiti e l’Armata Rossa trova soltanto i prigionieri,
ridotti a semplici manichini pelle ed ossa.
Un sorriso, ad ogni modo, si legge sulle facce di quegli
uomini, la speranza di essere degli uomini liberi, sopita
ma mai abbandonata durante gli anni della prigionia, torna
a bussare nella loro coscienza. Un sorriso che, purtroppo,
scompare molto in fretta.
I russi hanno bisogno di uomini e caricano gli sventurati
nei camion per portarli nei loro campi di lavoro, la tanto
agognata libertà torna immediatamente ad essere un
miraggio lontano, che fa sempre più male ma che non si può
più rimandare, in un modo o nell’altro.
Il sergente decide che è arrivato il
momento di rischiare, sa bene che anche in Russia la
prospettiva non sarà molto differente di quella che ha
vissuto fino ad allora. Insieme ad altri 4 uomini - gli
stessi che si sono affezionati a lui ed ai suoi modi
sempre gentili durante la lunga prigionia - scappa verso
l’Austria.
Mentre sta per raggiungere
Innsbruck viene fermato dagli agenti dell’Armata Rossa. Il
viaggio sembra al capolinea, i militari controllano i
documenti, non ci sono speranze, gli spetta un altro
biglietto di sola andata, direzione est stavolta. Ma qui
avviene il miracolo, quello stesso miracolo invocato
chissà quante volte durante le notti tedesche, nelle
preghiere, nelle lettere, nei pensieri di ogni giorno. Il
capitano russo che ha in mano il loro destino decide di
farli passare, gli concede il via libera. Il motivo il
sergente non lo saprà mai, forse lo aveva scritto in
faccia e quel capitano è riuscito a leggerlo,
evidentemente quella maledetta guerra non è riuscita a
cancellare del tutto il bene che c’è negli uomini. C’è
sempre una speranza nella vita, una speranza alla quale
aggrapparsi nei momenti più bui, una speranza che diventa
ragione di vita, dalla quale prendere la forza per andare
avanti, che infiamma la coscienza di tutti gli uomini che
hanno la forza per crederci.
Il viaggio prosegue, i
chilometri che separano da casa il sergente ed i suoi
uomini sono ancora tanti ma nel gruppo c’è la stupenda
sensazione che, finalmente, la strada verso casa, verso la
tanto agognata liberta, esiste, lunga e tortuosa ma c’è.
Dopo un mese di cammino il
sergente arriva a Bologna. I suoi commilitoni lo salutano
e lo abbracciano, per loro il lungo viaggio è finito, sono
arrivati a casa, il suo durerà ancora un po’.
Dal centro emiliano parte un treno direzione sud, spinto
da una locomotiva a vapore che, a causa dei danni subiti
durante i bombardamenti, procede con estrema lentezza. Ci
vuole una settimana per arrivare a casa, il sergente
sembra quasi non accorgersene, la paura è passata, inizia
a sentire lo straordinario profumo di casa.
Quando arriva a Diamante si
inginocchia e bacia la sua terra, chissà quante volte avrà
sognato quel momento, la bacia e si accascia al suolo,
pesa 34 chili. I primi mesi sono difficili, non riesce a
mangiare e dorme per terra, la morbidezza del materasso
non riesce proprio a mandarla giù. Il tempo, si sa, cura
tutte le ferite, il sergente, finalmente civile dopo 15
anni passati sotto le armi, può iniziare la sua vita.
Questa è la storia di mio nonno, Ernesto.
Una storia che mi ha raccontato ogni volta che, da
bambino, mi sedevo sulle sue ginocchia e iniziavo a
riempirlo di domande. Lo ascoltavo in silenzio, attento ad
ogni sua parola, ogni sua espressione. Mandava a memoria
quelle immagini che, evidentemente, non lo avevano mai
abbandonato.
Nei suoi occhi, tutte le
volte, si rannicchiavano delle lacrime, la sua voce si
faceva sempre più flebile, non riusciva a trattenere
quelle emozioni. Ma io volevo sapere, e lui, da nonno
migliore del mondo qual era, non mi diceva di no e
continuava a raccontare, con gli occhi rossi e un nodo in
gola, senza rancore, senza cattiveria, senza voglia di
rivalsa, ma con tanta umanità e una tenerezza che, se ci
penso ora, penso di non aver mai più sentito.
Ho sentito questa storia
tante volte e crescendo sono riuscito ad apprezzarla
sempre di più, riscoprendo un uomo speciale, unico, una
persona che non ha mai perso la speranza di potercela
fare, anche se ha subito privazioni e sofferenze tra le
più dure che un uomo possa provare. Un uomo che non si è
mai lamentato della sua vita, riuscendo a viverla al
meglio, una persona perbene, di cui essere orgogliosi.
È necessario, anche a distanza di tanti anni, continuare a
raccontare la sua storia. È necessario per onorarne la
memoria, per non rendere mai vano tutto quello che ha
dovuto passare, per dare merito alla sua forza, alla sua
resistenza, per applaudire un uomo che non si è mai
piegato alla brutalità, che ha sempre perseguito la
gentilezza e la bontà. Le sue armi erano le carezze e i
sorrisi, era un uomo buono, forgiato da tanta sofferenza
ma che non ha mai smesso di voler bene agli altri, anche
quando era molto difficile.
Lo Stato italiano dopo la
guerra si è dimenticato di lui, nessun riconoscimento,
nessuna medaglia, nessun sussidio economico, neanche un
semplice grazie.
Dopo tanti anni dalla sua morte ho letto per caso che
quello stesso Stato avrebbe dato una medaglia a tutti gli
internati dei campi di lavoro tedeschi, per onorare la
loro memoria. Ci volevano dei documenti, delle
testimonianze, materiale che non immaginavo neanche
potesse esistere ma che avevo il dovere di cercare.
Ho passato settimane a
scovare, nei suoi scatoloni pieni di polvere,
testimonianze di quello che mi aveva raccontato. Ho
trovato molto più di quello che avrei mai potuto
immaginare. Lettere alla mia nonna, censurate quasi
completamente, manco rivelassero segreti di guerra, lascia
passare, i finti soldi con i quali i tedeschi “pagavano” i
prigionieri e che servivano per il tozzo di pane
quotidiano. Ho trovato il biglietto nel quale il suo
commilitone gli confida di voler scappare e gli lasciava
gli zoccoli come pegno di amicizia, il cucchiaio che si
era costruito per provare a mangiare con dignità e non con
le mani.
Ho scavato in quei ricordi
ed è stato come ritrovarmi, in braccio a lui, su quella
stessa sedia, ad ascoltare la sua storia. Ho ricostruito i
suoi spostamenti, i posti in cui era stato prigioniero, ho
compilato la domanda, fotocopiato le testimonianze,
catalogato con cura tutto e ho spedito la lettera. Dopo qualche tempo, è
arrivata la risposta: gli era stata accordata la medaglia
al merito.
“Hai vinto nonno” avrei voluto gridargli, dopo tanti anni hai almeno una medaglia da appuntare sul tuo petto pieno di coraggio. Hai vinto nonno, anche lo stato italiano si è accorto di quanto sei stato valoroso, noi tutti lo abbiamo sempre saputo però, per noi non sarebbero bastate tutte le medaglie del mondo per renderti onore.
Quando ho
ricevuto dalle mani del Prefetto la sua
medaglia al valore civile mi sono sentito
orgoglioso come mai mi era successo prima di
allora.
Si era conquistato la libertà lottando ogni giorno, se la meritava, e si meritava, finalmente, questa medaglia. |
Questa volta ti è toccato caro nonno, il mio eroe lo
sei sempre stato e lo sarai per sempre, per un giorno
anche qualcun altro potrà accorgersi di quanto sei
stato speciale.
Per non dimenticare mai com’era vivere senza libertà. E con la speranza di tornare presto a vivere la nostra di libertà.