Ernesto Caridi: il sergente eroe

di Francesco Caridi


     
     Questa storia inizia un bel po' di anni fa.  Albania, 8 settembre 1943.

      Proviamo a semplificare un po’: l’Italia ha appena firmato l’armistizio, la guerra continua ma noi italiani cambiano schieramento. Tanti (non cari) saluti ad Hitler ed alla Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Russia, da acerrimi nemici da combattere si trasformano in alleati. Basta un annuncio alla radio, erano in pochissimi a saperlo prima. La notizia prende naturalmente di sorpresa tutti quanti, il maresciallo Badoglio da l’annuncio ed in tutto il paese sentimenti contrastanti invadono le coscienze. La guerra da lì a due anni finirà, con tutte le conseguenze che conosciamo ma, forse, abbiamo dimenticato troppo in fretta.

      Torniamo all’Albania, a Durazzo con precisione. Nella stessa caserma italiani e tedeschi, come è normale, pranzano insieme aspettando le istruzioni per il pattugliamento pomeridiano. La radio italiana lì non si sente, c’è fermento però, anche se non se ne capisce subito il motivo. All’improvviso le truppe tedesche fanno irruzione nella tenda degli italiani, fucili spianati ed urla minacciose.

      Gli stessi soldati che poche ore prima erano da considerare “amici” (per quanto in guerra questo termine possa valere), adesso stanno mettendo tutti faccia a terra con la baionetta carica e pronta a colpire.

      Tra quelle facce stranite e perplesse c’è anche quella di un sergente della Marina Militare Italiana. Sono tanti anni ormai che serve il suo Paese, ne ha viste tante, prima cinque anni di servizio militare obbligatorio, imbarcato inizialmente sulla nave scuola Cristoforo Colombo e poi sulla Amerigo Vespucci, il breve ritorno a casa e l’immediata chiamata alle armi all’indomani del 10 Giugno 1940.
      È stato in Africa a combattere gli inglesi, ad Atene per “rompere le reni alla Grecia”, in Albania per annetterla al Regno d’Italia e ora si trova in una caserma di Durazzo a fare come sempre il suo lavoro, senza lamentarsi.

      Succede tutto all’improvviso, gli italiani vengono passati alle armi, si chiede loro, ad uno ad uno: “tu Mussolini o Badoglio”. La risposta non conta, non ha senso, i soldati di Hitler hanno già deciso cosa fare, con ognuno di loro.
      Il sergente preferisce non parlare, consapevole che qualsiasi cosa dica non possa cambiare il suo destino.
      In cambio del silenzio riceve una baionettata sul fondo schiena ed un biglietto di sola andata verso la Germania. Il viaggio dura svariati giorni, costipati in un carro bestiame nel quale anche gli animali si sarebbero rifiutati di salire, costretti a bere staccando le placche di ghiaccio che si formavano sul vagone.
      Poi l’arrivo a Zwickau, campo di lavoro nazista nei pressi di Dresda. Lì inizia la prigionia, il sergente, insieme a tantissimi altri italiani, è costretto a turni di lavoro massacranti, almeno 16 ore al giorno senza fermarsi, ci sono da costruire i carri armati del Reich.
Sotto la neve, con una fettina di pane ogni due giorni, una patata bollita e tutto quello che si riusciva a trovare. Giorni tutti uguali scanditi dalla sofferenza, dalla fatica, dalla paura di non tornare più a casa ad abbracciare i propri cari, dalla sua amata Lucia che ha lasciato a Diamante con la promessa di riabbracciarsi e alla quale, ogni volta che può, scrive lettere d’amore.
Il sergente lavora duramente, non ha alternativa per salvare la propria vita, prova ad aiutare chi è in difficoltà, qualcuno si confida con lui, vuole scappare, gli scrive una lettera, ci proverà quella notte stessa.
      Nella lettera c’è scritto che gli lascia i suoi zoccoli, evidentemente valevano tantissimo all’interno del campo, in quella tragedia.
      Passa il tempo ed il sergente viene trasferito. Burgkirchen. Cambia il posto ma non cambia, purtroppo, la sostanza.
      Aumentano le ore di lavoro e diminuisce, se possibile, anche il cibo. La Germania è in difficoltà, americani e russi avanzano inesorabilmente, bisogna produrre di più e consumare di meno, e gli schiavi sono una delle pochissime risorse sulle quali può contare Hitler.
La fine del Reich di avvicina sempre di più ed i nazisti provano a cancellare tutte le prove dei loro misfatti. Spariscono documenti scottanti e persone, milioni di persone, la soluzione finale.
Anche nel campo del sergente iniziano le esecuzioni sommarie, i russi sono ormai alle porte. Finalmente, nel Giugno del 1945 entrano nel campo, i tedeschi sono già fuggiti e l’Armata Rossa trova soltanto i prigionieri, ridotti a semplici manichini pelle ed ossa.
Un sorriso, ad ogni modo, si legge sulle facce di quegli uomini, la speranza di essere degli uomini liberi, sopita ma mai abbandonata durante gli anni della prigionia, torna a bussare nella loro coscienza. Un sorriso che, purtroppo, scompare molto in fretta.
I russi hanno bisogno di uomini e caricano gli sventurati nei camion per portarli nei loro campi di lavoro, la tanto agognata libertà torna immediatamente ad essere un miraggio lontano, che fa sempre più male ma che non si può più rimandare, in un modo o nell’altro.
      Il sergente decide che è arrivato il momento di rischiare, sa bene che anche in Russia la prospettiva non sarà molto differente di quella che ha vissuto fino ad allora. Insieme ad altri 4 uomini - gli stessi che si sono affezionati a lui ed ai suoi modi sempre gentili durante la lunga prigionia - scappa verso l’Austria.
      Mentre sta per raggiungere Innsbruck viene fermato dagli agenti dell’Armata Rossa. Il viaggio sembra al capolinea, i militari controllano i documenti, non ci sono speranze, gli spetta un altro biglietto di sola andata, direzione est stavolta. Ma qui avviene il miracolo, quello stesso miracolo invocato chissà quante volte durante le notti tedesche, nelle preghiere, nelle lettere, nei pensieri di ogni giorno. Il capitano russo che ha in mano il loro destino decide di farli passare, gli concede il via libera. Il motivo il sergente non lo saprà mai, forse lo aveva scritto in faccia e quel capitano è riuscito a leggerlo, evidentemente quella maledetta guerra non è riuscita a cancellare del tutto il bene che c’è negli uomini. C’è sempre una speranza nella vita, una speranza alla quale aggrapparsi nei momenti più bui, una speranza che diventa ragione di vita, dalla quale prendere la forza per andare avanti, che infiamma la coscienza di tutti gli uomini che hanno la forza per crederci.
      Il viaggio prosegue, i chilometri che separano da casa il sergente ed i suoi uomini sono ancora tanti ma nel gruppo c’è la stupenda sensazione che, finalmente, la strada verso casa, verso la tanto agognata liberta, esiste, lunga e tortuosa ma c’è.
      Dopo un mese di cammino il sergente arriva a Bologna. I suoi commilitoni lo salutano e lo abbracciano, per loro il lungo viaggio è finito, sono arrivati a casa, il suo durerà ancora un po’.
Dal centro emiliano parte un treno direzione sud, spinto da una locomotiva a vapore che, a causa dei danni subiti durante i bombardamenti, procede con estrema lentezza. Ci vuole una settimana per arrivare a casa, il sergente sembra quasi non accorgersene, la paura è passata, inizia a sentire lo straordinario profumo di casa.
      Quando arriva a Diamante si inginocchia e bacia la sua terra, chissà quante volte avrà sognato quel momento, la bacia e si accascia al suolo, pesa 34 chili. I primi mesi sono difficili, non riesce a mangiare e dorme per terra, la morbidezza del materasso non riesce proprio a mandarla giù. Il tempo, si sa, cura tutte le ferite, il sergente, finalmente civile dopo 15 anni passati sotto le armi, può iniziare la sua vita.

      Questa è la storia di mio nonno, Ernesto.

      Una storia che mi ha raccontato ogni volta che, da bambino, mi sedevo sulle sue ginocchia e iniziavo a riempirlo di domande. Lo ascoltavo in silenzio, attento ad ogni sua parola, ogni sua espressione. Mandava a memoria quelle immagini che, evidentemente, non lo avevano mai abbandonato.
      Nei suoi occhi, tutte le volte, si rannicchiavano delle lacrime, la sua voce si faceva sempre più flebile, non riusciva a trattenere quelle emozioni. Ma io volevo sapere, e lui, da nonno migliore del mondo qual era, non mi diceva di no e continuava a raccontare, con gli occhi rossi e un nodo in gola, senza rancore, senza cattiveria, senza voglia di rivalsa, ma con tanta umanità e una tenerezza che, se ci penso ora, penso di non aver mai più sentito.
      Ho sentito questa storia tante volte e crescendo sono riuscito ad apprezzarla sempre di più, riscoprendo un uomo speciale, unico, una persona che non ha mai perso la speranza di potercela fare, anche se ha subito privazioni e sofferenze tra le più dure che un uomo possa provare. Un uomo che non si è mai lamentato della sua vita, riuscendo a viverla al meglio, una persona perbene, di cui essere orgogliosi.

      È necessario, anche a distanza di tanti anni, continuare a raccontare la sua storia. È necessario per onorarne la memoria, per non rendere mai vano tutto quello che ha dovuto passare, per dare merito alla sua forza, alla sua resistenza, per applaudire un uomo che non si è mai piegato alla brutalità, che ha sempre perseguito la gentilezza e la bontà. Le sue armi erano le carezze e i sorrisi, era un uomo buono, forgiato da tanta sofferenza ma che non ha mai smesso di voler bene agli altri, anche quando era molto difficile.
      Lo Stato italiano dopo la guerra si è dimenticato di lui, nessun riconoscimento, nessuna medaglia, nessun sussidio economico, neanche un semplice grazie.

      Dopo tanti anni dalla sua morte ho letto per caso che quello stesso Stato avrebbe dato una medaglia a tutti gli internati dei campi di lavoro tedeschi, per onorare la loro memoria. Ci volevano dei documenti, delle testimonianze, materiale che non immaginavo neanche potesse esistere ma che avevo il dovere di cercare.
      Ho passato settimane a scovare, nei suoi scatoloni pieni di polvere, testimonianze di quello che mi aveva raccontato. Ho trovato molto più di quello che avrei mai potuto immaginare. Lettere alla mia nonna, censurate quasi completamente, manco rivelassero segreti di guerra, lascia passare, i finti soldi con i quali i tedeschi “pagavano” i prigionieri e che servivano per il tozzo di pane quotidiano. Ho trovato il biglietto nel quale il suo commilitone gli confida di voler scappare e gli lasciava gli zoccoli come pegno di amicizia, il cucchiaio che si era costruito per provare a mangiare con dignità e non con le mani.
      Ho scavato in quei ricordi ed è stato come ritrovarmi, in braccio a lui, su quella stessa sedia, ad ascoltare la sua storia. Ho ricostruito i suoi spostamenti, i posti in cui era stato prigioniero, ho compilato la domanda, fotocopiato le testimonianze, catalogato con cura tutto e ho spedito la lettera.
Dopo qualche tempo, è arrivata la risposta: gli era stata accordata la medaglia al merito.

      “Hai vinto nonno” avrei voluto gridargli, dopo tanti anni hai almeno una medaglia da appuntare sul tuo petto pieno di coraggio. Hai vinto nonno, anche lo stato italiano si è accorto di quanto sei stato valoroso, noi tutti lo abbiamo sempre saputo però, per noi non sarebbero bastate tutte le medaglie del mondo per renderti onore.

      Quando ho ricevuto dalle mani del Prefetto la sua medaglia al valore civile mi sono sentito orgoglioso come mai mi era successo prima di allora.

      Orgoglioso di essere suo nipote, orgoglioso di rappresentarlo, orgoglioso di onorare quello che aveva vissuto e il modo nel quale lo aveva fatto: a testa alta e senza mai lamentarsi per quel destino così crudele che gli aveva portato via i migliori anni della sua vita ma che lo aveva visto vincere la sua battaglia e tornare a vivere.

      Si era conquistato la libertà lottando ogni giorno, se la meritava, e si meritava, finalmente, questa medaglia.



      Sono sicuro che da lassù sarà stato felice anche lui, ma si sarà vergognato di essere così al centro dell'attenzione, non gli piaceva stare sotto i riflettori.

      Questa volta ti è toccato caro nonno, il mio eroe lo sei sempre stato e lo sarai per sempre, per un giorno anche qualcun altro potrà accorgersi di quanto sei stato speciale.

      Per non dimenticare mai com’era vivere senza libertà. E con la speranza di tornare presto a vivere la nostra di libertà.

     Diamante, 25 aprile 2020.
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